Stop al licenziamento del dipendente solo perché in malattia svolge un’altra attività, lavorativa o no

E ciò nonostante i video e le foto tratte dal profilo Facebook dell’incolpato. La circostanza non costituisce di per sé inadempimento degli obblighi imposti al prestatore: al datore provare che la patologia è simulata o che la condotta ha ritardato il rientro in servizio

Stop al licenziamento del dipendente solo perché in malattia svolge un’altra attività, lavorativa o no

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Il datore non può licenziare per giusta causa soltanto perché il dipendente mentre si trova in malattia svolge un’altra attività, che sia lavorativa in favore di terzi oppure semplicemente di piacere: la circostanza, infatti, non costituisce di per sé inadempimento degli obblighi imposti al prestatore d’opera, mentre spetta all’azienda dimostrare che la malattia lamentata dal dipendente sia simulata oppure che l’attività posta in essere risulti idonea anche solo potenzialmente in grado di pregiudicare o ritardare il rientro in servizio. E ciò perché è la legge che impone al datore di provare tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il recesso. È quanto emerge dalla sentenza 13063/22, pubblicata il 26 aprile dalla sezione lavoro della Cassazione. Diventa definitiva la condanna della fondazione a reintegrare il dipendente e risarcirlo con dodici mensilità. E ciò nonostante i video e le foto tratte dal profilo Facebook dell’incolpato e l’irreperibilità dell’interessato alle visite di controllo: dai primi emergono condotte extralavorative che non aggravano lo stato patologico del dipendente mentre il secondo addebito va qualificato come mancata comunicazione del diverso domicilio, che è punita con mera sanzione conservativa dal contratto collettivo applicabile. L’ordinamento non vieta al lavoratore di prestare attività, anche a favore di terzi, durante la malattia. Il punto che anche il dipendente assente dal servizio è legato al datore dall’obbligo di fedeltà oltre che tenuto al rispetto dei doveri generali di correttezza e buona fede. E dunque può scattare la sanzione espulsiva a carico del lavoratore che, ad esempio, non rispetta le prescrizioni del medico mettendo a rischio la guarigione e, quindi, il ritorno in azienda. Per i giudici di legittimità, infatti, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, rileva Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, il motivo è fondato e, al riguardo, hanno ricordato che “ È tuttavia l’articolo 5 della legge 604/66 a imporre al datore di provare la giusta causa del licenziamento: «un onere tradizionalmente inteso con rigore», altrimenti si configura una surrettizia inversione dell’onere della prova, almeno secondo l’orientamento di giurisprudenza cui aderisce il collegio. L’azienda può ricorrere a ogni mezzo di prova e sollecitare al giudice l’esperimento di una consulenza tecnica o l’attivazione di poteri officiosi ex articolo 421 Cpc.

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