Scandalo protesi PIP: condannato in appello l’ente certificatore a risarcire migliaia di donne

Svolta per la causa legale che prosegue da anni

Scandalo protesi PIP: condannato in appello l’ente certificatore a risarcire migliaia di donne

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È quanto ha sentenziato la Corte d'appello di Parigi, in una svolta per la causa legale che prosegue da anni, che ha riconosciuto il ruolo dell’ente certificatore tedesco TÜV Rheinland nello scandalo delle protesi mammarie PIP. Secondo la Corte, infatti, l’ente non è riuscito a controllare adeguatamente il silicone prodotto dalla società francese Poly Implant Prothese. A conferma un rapporto realizzato nel Regno Unito nel 2012, sugli effetti a lungo termine degli impianti PIP, che ha scoperto che erano significativamente più propensi a rompersi o a perdere silicone rispetto agli altri impianti. In conseguenza del suo errore, i chirurghi hanno impiantato protesi con un gel scadente causando a migliaia di donne in tutto il mondo problemi di salute “fisica e mentale”. La sentenza afferma che TÜV avrebbe dovuto notare “l’evidente discrepanza tra la quantità di gel acquistata dall’unico fornitore autorizzato e il numero di protesi mammarie prodotte”. La Corte ha ordinato al TÜV di pagare € 3.000 ($ 3.640) a ciascun ricorrente. Attualmente sono più di 13.000 le donne a ricevere un risarcimento. Tuttavia, la corte d’appello ha respinto i casi promossi da poco più di 6.200 donne, adducendo una mancanza di prove. Il caso delle protesi difettose scoppia in Francia nel 2011. A far precipitare nel panico centinaia di migliaia di donne in tutto il mondo, la decisione transalpina di rimuovere, in via cautelativa, gli impianti a 30mila donne portatrici di protesi Pip. Una decisione presa dopo la verifica di un tasso di rottura doppio rispetto alla media, e soprattutto dopo aver registrato la morte di una donna per una rara forma di cancro, il nono caso del genere. Le protesi sotto accusa, si scopre, sono realizzate con silicone di scarsa qualità (acquistato dalla ditta produttrice a costi 10 volte inferiori a quelli di mercato) con additivi chimici, baysilone, silopren e rhodorsil, resine utilizzati per produzioni di carburanti, gomma, computer e anche alimenti, ma mai sperimentati, né tanto meno approvati per uso clinico. In caso di rottura, si teme, queste sostanze potrebbero provocare infiammazioni e tumori. Tutto il mondo corre ai ripari. Dal Brasile (dove 25mila donne hanno subito gli impianti) alla Bolivia, dalla Gran Bretagna all’Equador scattano divieti e controlli su chi le aveva già impiantate. Jean-Claude Mas, il 72enne fondatore della Pip viene ricercato in Costa Rica dall’Interpol. In conseguenza di questo scandalo, l’azienda è fallita. "Questo è un giorno storico per le vittime dello scandalo PIP in tutto il mondo in quanto la Corte d'Appello di Parigi ha sostenuto la responsabilità del TUV, il che significa che il certificatore tedesco è stato negligente e ha mancato i suoi requisiti di controllo", ha risposto Olivier Aumaître, avvocato e fondatore di PIPA, durante un press point. Ha aggiunto che lo scandalo avrebbe potuto essere evitato o scoperto prima se la società non avesse commesso la negligenza. La sentenza, evidenzia Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, potrebbe avere implicazioni per decine di migliaia di altre vittime in tutto il mondo. Si stima che fino a 300'000 donne abbiano ricevuto degli impianti di questo tipo.

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