Prestiti e finanziamenti. Dichiarata vessatoria la clausola redatta con caratteri minuscoli che stabilisce interessi di mora e penali elevate. L'illeggibilità della condizione può risultare ingannevole per il consumatore

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Finanziarie e banche colpite duramente dal una sentenza del Tribunale di Genova che, Giovanni D&\#39;Agata, fondatore dello “Sportello dei Diritti”, ritiene opportuno portare all’attenzione per la possibilità di agire su vicende analoghe a tutela di tutti i consumatori - debitori, purtroppo non rare quando si tratta di rapporti interbancari anche riguardo alle procedure di finanziamento e prestito.
Risulta, infatti, essere esemplare la sentenza n. 518/2013, che ha applicato il Testo Unico Bancario (TUB) e la giurisprudenza della Corte di giustizia europea, dichiarando vessatorie le clausole apposte sui finanziamenti che riportano penali troppo elevate scritte a caratteri miniaturizzati.
Il giudice unico del tribunale ligure ha ritenuto valide le ragioni indicate nell’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, in relazione alle condizioni che riguardano le penali con interessi moratori sino al 30%, notificato dal cliente di una banca che aveva sottoscritto un contratto di finanziamento contenente “clausole dattiloscritte, completamente illeggibile in ragione della misura dei caratteri”.
Ha rilevato il togato che per valutare la vessatorietà delle clausole dev’essere evidenziato in primis il sistema di tutela del consumatore istituito dalla direttiva europea 93/13 che affonda le sue basi sulla ratio che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative che il grado di informazione, situazione che lo induce ad aderire alle condizioni predisposte preventivamente dal professionista senza poter incidere sul contenuto delle stesse.
Ma v’è di più. Bisogna ricordare che l&\#39;opposizione al decreto ingiuntivo, non è un&\#39;impugnazione del decreto, volta a farne valere vizi ovvero originarie ragioni di invalidità, ma avvia un ordinario giudizio di cognizione di merito, volto all&\#39;accertamento dell&\#39;esistenza del diritto di credito fatto valere dal creditore con il ricorso ex art. 633 e 638 c.p.c., così che la sentenza che decide il giudizio deve accogliere la domanda dell&\#39;attore, ovvero, del creditore istante, rigettando conseguentemente l&\#39;opposizione, quante volte abbia a riscontrare che i fatti costitutivi del diritto fatto valere in sede monitoria, pur se non sussistenti al momento della proposizione del ricorso, sussistono tuttavia in quello successivo della decisione.
Per Giovanni D’Agata, alla luce di tale sentenza sulla scorta di altri autorevoli precedenti, si corrobora la possibilità per i consumatori – debitori, di agire a tutela dei propri diritti quando istituti finanziari e banche siano poco trasparenti e pretendano un eccesso di obblighi a carico degli stessi.
 

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