La prescrizione dei crediti erariali

avv. maurizio villani

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Il decorso del tempo, insieme con altri elementi, può assumere diverso rilievo per l’ordinamento giuridico e, in particolare, può influire sull’acquisto e sull’estinzione dei diritti.
La disciplina degli istituti della prescrizione e della decadenza si rinviene innanzitutto nel codice civile, rispettivamente agli artt. 2934 e ss. e agli artt. 2964 e ss. c.c.

• Prescrizione
Come è ben noto, la prescrizione è un istituto di ordine pubblico per effetto del quale i diritti si estinguono se il titolare degli stessi non li esercita per il tempo stabilito dalla legge.
Essa ha per oggetto tutti i diritti soggettivi, con esclusione dei diritti indisponibili e del diritto di proprietà nonché di alcuni diritti di azione (petizione di proprietà, art.533 c.c., azione di nullità, art. 1422 c.c.).
Poiché fondamento della prescrizione è l’inerzia del titolare del diritto, consegue che la stessa non decorre se il diritto è subordinato a condizione o termine, né può operare se l’inerzia è giustificata da cause previste dalla legge (sospensione per rapporti tra le parti o condizioni soggettive del titolare, artt.2941 e 2942 c.c.) e viene meno se il titolare esercita il diritto o questo viene riconosciuto dal soggetto passivo (interruzione ex artt. 2943 e 2944 c.c.).
La differenza sostanziale tra la sospensione e l’interruzione si ravvisa nel fatto che, nella prima, il periodo di tempo sospeso opera come una parentesi nel computo del termine onde, cessata la causa di sospensione, il decorso del termine riprende, calcolandosi anche quello maturato anteriormente alla sospensione; nell’interruzione, invece, poiché viene meno l’inerzia, il decorso del termine inizia nuovamente, senza calcolare il tempo anteriore all’atto interruttivo.
Il termine ordinario della prescrizione è di anni 10 (art.2946 c.c.), ma vi sono anche prescrizioni ventennali (estinzione dei diritti reali su cose altrui, artt. 954, 970, 1014, 1073 c.c.) e prescrizioni brevi (prestazioni periodiche, art.2958 c.c., e risarcimento dei danni art. 2947 c.c.), queste ultime previste dalla legge per particolari rapporti e per le quali, tuttavia, una volta azionato il diritto in sede giudiziale e passata in giudicato la sentenza (art.324 c.p.c.) sopraggiunge la c.d. actio judicati, soggetta alla prescrizione ordinaria decennale (art. 2953 c.c.).
Vi sono infine le prescrizioni presuntive, previste dalla legge per il credito di alcuni soggetti che operano (per la durata di sei mesi, un anno o tre anni, secondo i crediti) sul terreno processuale e possono essere superate mediante la confessione del debitore (art.2959 c.c.) o mediante deferimento del giuramento decisorio (art. 2960 c.c.).
La prescrizione, in quanto istituto di diritto pubblico, non è derogabile, prorogabile o abbreviabile e nemmeno rinunciabile mentre è in corso, ma è rinunciabile solo dopo che sia maturata (artt. 2936 e 2937 c.c.) e non è rilevabile di ufficio (art. 2938 c.c.) ma deve essere eccepita dall’interessato.

• La decadenza
Anche la decadenza, come la prescrizione, comporta la perdita del diritto per l’inerzia del titolare, ma mentre la seconda è una sanzione per il titolare del diritto che ne ha omesso l’esercizio nel tempo, la prima costituisce un onere imposto dalla legge (decadenza legale) o concordato dalle parti (decadenza convenzionale) per acquisire il potere di esercitare il diritto e ha un fine prevalentemente sociale, senza alcun rilievo per le cause di impedimento. La predetta ultima caratteristica comporta l’inammissibilità di cause di interruzione o di sospensione (art. 2964 c.c.), salvo, per le cause di sospensione, che la legge disponga altrimenti (come per i termini per l’azione di disconoscimento della paternità da parte di interdetti, art. 245 c.c.).
La decadenza è impedita unicamente con il compimento dell’atto previsto che ne comporta la definitiva cessazione (art. 2965 c.c.), restando successivamente il diritto soggetto alle norme sulla prescrizione (art. 2967 c.c.)
La decadenza legale ha natura eccezionale poiché deroga al principio del libero esercizio dei diritti soggettivi, sicchè alle norme che la prevedono non è applicabile l’analogia. Se è posta nell’interesse generale (per i diritti indisponibili), le parti non possono modificarne il regime legale né rinunciarvi, (art. 2968 c.c.) rimanendo essa rilevabile di ufficio dal giudice (art. 2969 c.c.). Se invece attiene a diritti disponibili (es. garanzia nella compravendita), le parti possono regolamentarla come ritengono, purchè non sia reso eccessivamente oneroso l’esercizio del diritto (art. 2965 c.c.) e anche rinunciarvi.
2. La prescrizione e la decadenza nel diritto tributario.
2.1 La prescrizione dei diritti di credito tributario.
Nel diritto tributario sono previsti, in prevalenza, termini di decadenza (per il potere di accertamento, di liquidazione e di iscrizione a ruolo per l’Amministrazione Finanziaria e per il diritto al rimborso per il contribuente). Una volta impedita la decadenza, con il compimento dell’atto indicato, diviene operante la prescrizione del diritto di credito tributario.
Solo per alcuni diritti di credito tributario sono previsti esclusivamente - ovvero senza previsione di decadenza - termini di prescrizione. Tra detti diritti rientra quello della c.d. tassa di possesso di autoveicolo.
Consegue che, una volta rispettato il termine di decadenza, se previsto, il diritto di credito dell’A.F. divenuto definitivo, per omessa impugnazione nei termini del provvedimento dell’A.F. da parte del contribuente o per passaggio in giudicato della sentenza che lo abbia confermato, resta soggetto alla prescrizione, che è quella specificamente prevista dalla legge, o, in mancanza di espressa previsione, quella ordinaria decennale (art. 2946 c.c.) per il caso di omessa impugnazione, e quella decennale della c.d. actio iudicati, nell’ipotesi di impugnazione conclusasi con sentenza passata in giudicato (art. 2953 c.c.).
E’ opportuno, poi, ricordare che la Legge n. 212/2000 (Statuto del Contribuente) all’art. 3, comma 3, dispone che i termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati, pur dovendosi rilevare che la disposizione, poiché contenuta in legge ordinaria, può essere derogata da altra legge ordinaria .
L’art. 3 cit. ha certamente abrogato il vecchio art. 1 del d.l. 21.6.1961 n. 498 secondo il quale, qualora gli uffici finanziari non siano in grado di funzionare regolarmente a causa di eventi eccezionali, i termini di prescrizione e decadenza possono essere prorogati con D.M. del Ministero competente (all’epoca delle Finanze).
Ciò premesso, residua però il dubbio se e in quali limiti la proroga possa essere prevista dal legislatore e quale sia dunque concretamente la “ forza” dello Statuto.
Sta di fatto che è stato poi lo stesso legislatore, poco dopo l’approvazione dello Statuto del contribuente con la L. n. 289/2002 (Legge Finanziaria per il 2003, che sicuramente non è una legge di carattere generale), a prevedere un’ipotesi di proroga dei termini di decadenza (e conseguentemente anche dei successivi termini di prescrizione per il recupero dell’imposta) per l’accertamento dell’imposta sui redditi e dell’Iva nei confronti dei contribuenti che non si fossero avvalsi di quel condono tributario.
Se lo Statuto fosse stato adottato con L. Costituzionale, non vi è dubbio che una legge ordinaria non avrebbe potuto violare il precetto dell’art. 3; viceversa, resta difficile riconoscere ad esso quella forza maggiore che l’art. 1 sembrerebbe evocare in virtù dei principi costituzionali ai quali con essa si è inteso dare attuazione (artt. 3, 23, 53 e 97).
Come previsto per il diritto civile, la prescrizione dei diritti di credito tributario non è rilevabile di ufficio dal giudice ma deve essere eccepita dall’interessato (contribuente o ente impositore per i diritti di rimborso del primo) e ad essa si applicano le stesse cause di sospensione e di interruzione.
Per i diritti di credito tributario la prescrizione decorre dal momento in cui l’iscrizione a ruolo è esecutiva.
La notifica di una cartella di pagamento o di una ingiunzione fiscale è causa di interruzione della prescrizione, mentre l’impugnazione del ruolo o della cartella di pagamento o dell’ingiunzione fiscale è causa di sospensione.
E’ da precisare che, per il principio dell’unicità dell’accertamento, l’A.F. non può emettere per lo stesso fatto più atti di accertamento, con eccezione delle sole ipotesi dell’accertamento integrativo, qualora venga a conoscenza di nuovi elementi, oppure del previo annullamento del primo accertamento viziato. E’ evidente, comunque, che nell’ipotesi che l’A.F. abbia notificato tempestivamente un accertamento nullo perché viziato, un secondo accertamento emesso in sostituzione del primo annullato, ma notificato dopo la scadenza del termine previsto, non potrebbe giovare all’A.F. facendo valere il primo come atto interruttivo poiché questo, essendo nullo, non avrebbe potuto produrre alcun effetto.
Per quanto riguarda il diritto di rimborso del contribuente, sono previsti solo termini di decadenza onde, evitata la decadenza con il compimento dell’atto, si applica la prescrizione ordinaria decennale (2946 c.c.). Si applicano le cause di interruzione e di sospensione previste dal codice civile e, tra queste ultime, rileva la notifica di un atto di messa in mora all’ente debitore (art. 2943/4 c.c.).
Giova precisare che, secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, per i tributi erariali (IRPEF, IRES, IRAP, IVA) accertati in un atto definitivo per omessa impugnazione, non è applicabile la prescrizione breve di anni 5 prevista per le prestazioni periodiche (art. 2948/4 c.c.) poichè i crediti erariali non possono considerarsi prestazioni periodiche in quanto derivano da valutazioni fatte per ciascun anno sulla sussistenza dei presupposti impositivi (Cass. 4283/2010). Consegue che, nella carenza di una espressa disposizione di legge, per detti tributi è applicabile la prescrizione ordinaria decennale (art. 2946 c.c.)
Invece, per i tributi per i quali è prevista una prescrizione inferiore ad anni 10 (es. ICI, TARSU, TIA, prescrizione anni 5) accertati in un atto definitivo perché non impugnato, la prescrizione resta pur sempre quella prevista poiché, se è pur vero che il provvedimento non opposto cumula in sé le caratteristiche del titolo esecutivo e del precetto, esso tuttavia ha solo l’effetto d’ irretrattabilità del credito, ma non certo quello del giudicato al quale solo è applicabile l’art. 2953 c.c. (ovvero il termine di anni 10 previsto per la prescrizione dell’actio iudicati). Deriva che, per i predetti diritti di credito tributario, devono applicarsi i termini di prescrizione previsti dalla norme che li disciplinano, non essendo applicabile per analogia la norma di cui all’art. 2953 c.c., che è eccezionale e riferita solo alla prescrizione dei diritti definitivamente accertati in giudizio. Ben si intende, però, che se il processo in cui è accertato un credito per cui è prevista una prescrizione inferiore ad anni 10 si conclude con sentenza passata in giudicato, trova applicazione la prescrizione decennale prevista dall’art. 2953 c.c. (così S.U. 23397/2016 del 17/11/2016).
Il contrasto giurisprudenziale risolto dalla Suprema Corte a Sezioni Unite in predetta sentenza verrà esaminato approfonditamente nel paragrafo seguente.

2.2 La decadenza dei diritti di credito tributario.
Nella materia tributaria la decadenza, ovvero l’inerzia dell’interessato che si protrae oltre il termine previsto per acquisire il potere di esercitare il diritto di credito tributario, può riguardare l’ente impositore o il contribuente.
Per quanto concerne l’ente impositore i termini di decadenza sono relativi al potere di accertamento, liquidazione e iscrizione a ruolo dei tributi, mentre per quanto concerne il contribuente fanno riferimento alla presentazione dell’istanza per esercitare il diritto al rimborso del tributo.
In entrambe le ipotesi, la decadenza deve essere comunque oggetto di un accertamento che, per quanto concerne l’ente impositore, è devoluto alla giurisdizione del giudice tributario mentre, per quanto concerne il contribuente, può essere rilevato prima dall’ente impositore e successivamente, in caso di impugnazione del provvedimento da parte del contribuente, dal giudice tributario, sempre in sede processuale.
In proposito, è necessario evidenziare il differente regime al quale sono soggette le decadenze poste in danno del contribuente da quelle poste in danno dell’ente impositore, secondo un costante insegnamento giurisprudenziale che fa leva sul diverso potere di disponibilità della relativa eccezione.
Si è, infatti, ritenuto che, mentre la decadenza stabilita in favore della A.F. per la inosservanza, da parte del contribuente, del termine per richiedere il rimborso di un tributo indebitamente versato è sempre rilevabile di ufficio, anche in appello (non integrando domanda nuova ex art. 57 Dlgs 546/1992, e comunque salvo l’effetto del giudicato interno), poiché “attiene a situazioni indisponibili determinate dall’esigenza di assicurare la stabilità delle entrate tributarie entro un periodo di tempo definito”, nell’ipotesi, invece, di decadenza in favore del contribuente, per l’inosservanza di termini da parte dell’A.F., la relativa eccezione, attesa la disponibilità del diritto, è rilevabile solo su eccezione precisa del contribuente formulata nel ricorso in primo grado (applicabilità dell’art. 57 Dlgs 546/92 - v. Cass 4670/2012 e 5862/2013).
Anche di recente (Cass.171/2015) è stato ritenuto che “…la Giurisprudenza di questa Corte…ha più volte ribadito come il termine di decadenza stabilito a carico dell’ufficio tributario ed in favore del contribuente per l’esercizio del potere impositivo abbia natura sostanziale e non appartenga a materia sottratta alla disponibilità delle parti, in quanto tale decadenza non concerne diritti indisponibili dello Stato alla percezione di tributi, ma incide unicamente sul diritto del contribuente a non vedere esposto il proprio patrimonio, oltre un certo limite di tempo, alle pretese del Fisco; cosicché è riservato alla valutazione del contribuente stesso la scelta di avvalersi o meno della relativa eccezione, da ritenersi, pertanto, eccezione in senso proprio, non rilevabile di ufficio né proponibile per la prima volte in fase di appello”.

3. I crediti erariali si prescrivono in cinque anni.

3.1 Le modifiche normative all’art.25 D.P.R. n.602/1973 e le sentenze d’illegittimità costituzionale (Corte Cost n.352/2004;Corte Cost. n.280/2005).

Prima che fosse introdotto nel nostro ordinamento tributario il “c.d. accertamento esecutivo”, il procedimento di riscossione delle somme dovute in base agli accertamenti diretti delle imposte dirette e dell’IVA constava dell’iscrizione a ruolo di quelle somme, alla quale provvedeva l’Amministrazione finanziaria, e della notifica della cartella di pagamento alla quale provvedeva l’esattore (ora concessionario) del servizio di riscossione e, da ultimo, agente di riscossione.
Nell’ambito di suddetto procedimento, l’iscrizione di una somma a ruolo presuppone l’esistenza del c.d. titolo d’iscrizione, tipicamente integrato da un atto che, al termine di un’attività a ciò funzionalmente preposta, definisce i profili qualitativi e quantitativi di una determinata pretesa impositiva, che occorre riscuotere mediante il ruolo. Sicchè, la qualificazione del ruolo come atto della funzione di riscossione segue alla constatazione che, in via ordinaria, mediante il ruolo non si determinano pretese ma, semplicemente, si riscuotono crediti relativi a pretese previamente individuate.
Accanto all’iscrizione a ruolo “ordinaria”, vi sono ipotesi in cui il ruolo non limita la sua funzione alla mera esazione di un credito. Tale ipotesi è più particolare, dove il ruolo non è semplicemente l’atto con cui si riscuote un credito ma, anche e prima, l’atto mediante il quale viene determinata e definita la pretesa impositiva sottostante.
Precisamente, l’art.11 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, afferma “nei ruoli sono iscritte le imposte, le sanzioni, gli interessi. I ruoli si distinguono in ordinari e straordinari. I ruoli straordinari sono formati quando vi è fondato pericolo per la riscossione”
Sulla base dei ruoli consegnati all’Ufficio impositore il concessionario della riscossione (oggi agente) redige e notifica al debitore la cartella di pagamento, un atto che, dopo la riforma del 1999, contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione, con l’avvertimento che, in mancanza,si procederà all’esecuzione forzata.
Ciò posto, occorre sottolineare che tanto per l’attività di “iscrizione dei ruoli” delle imposte, quanto per la successiva notifica della cartella di pagamento, inizialmente erano stati previsti termini di esecuzione specifici, sia nella versione originaria del D.P.R. n. 602/1973, sia nella versione modificata dal Dlgs 26 febbraio 1999, n. 46, con la differenza che, solo per la prima di quelle attività, il termine era espressamente stabilito a “pena di decadenza”.
La giurisprudenza non si espresse sin da subito sulla natura decadenziale o meno del termine per la notifica della cartella di pagamento, sebbene avesse affermato che “l’esattore è soggetto ai ristretti termini di cui all’art.25 del D.P.R. n.602/1973 per la notificazione della cartella”(Cass., sez. I, 19 luglio 1999, n.7662).
Una posizione chiara ed inequivocabile, la giurisprudenza di legittimità l’assunse soltanto nel 2004, riconoscendo la natura “perentoria” del termine previsto dell’art. 25 del D.P.R. n. 602/1973 (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal Dlgs n. 46/1999), in ragione della formulazione letterale e del tenore logico delle espressioni usate dal legislatore, “ da cui è dato evincere in modo non equivoco l’obbligo per l’esattore di notificare la cartella di pagamento entro il termine fissato”.
D’altro canto, sosteneva nell’occasione la giurisprudenza di legittimità, “la natura perentoria dell’indicato termine…è stata autorevolmente ribadita dalla Corte Costituzionale (ordinanza n.107/2003)” (Cass. sez. trib,7 gennaio 2004, n.10).
Successivamente, il legislatore, con l’art.1 , primo comma lett. b) del Dlgs n. 193/2001,eliminando ogni riferimento al termine per la notifica della cartella di pagamento, secondo autorevole dottrina lo fece per una logica “favor fisci”.
Nel quadro normativo così modificato, la sola attività d’iscrizione a ruolo delle imposte restava soggetta a uno specifico termine di decadenza (art. 17 del D.P.R. n. 602/1973), mentre, per la successiva attività di notifica della cartella di pagamento, non era previsto più alcun termine, se non quello della prescrizione ordinaria.
Se una parte della dottrina riteneva che la novellata disciplina della riscossione tramite ruolo non garantiva adeguatamente la tutela dell’affidamento del contribuente, anche se posta come “principio generale” dell’ordinamento tributario con la previsione di cui all’art. 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), altra parte della dottrina ha denunciato esplicitamente i profili d’illegittimità costituzionale dell’art. 25 del D.P.R. n. 602/1973, per violazione dell’art. 24 cost.
Il legislatore, tenendo conto dei moniti della Consulta, ha tentato di ripristinare un’adeguata tutela reintroducendo il termine della notifica delle cartelle di pagamento e modificando nuovamente l’art. 25 predetto; nella sua nuova formulazione suddetto articolo, modificato dall’art.1 comma 417 della legge finanziaria 30 dicembre 2004 n. 311, prevedeva che “il concessionario notifica la cartella di pagamento al debitore iscritto a ruolo o al coobbligato nei confronti dei quali procede ,a pena di decadenza, entro il dodicesimo giorno del mese successivo a quello di consegna del ruolo, ovvero entro l’ultimo giorno del sesto mese successivo alla consegna se la cartella è relativa a un ruolo straordinario”
Tale termine introdotto viene, tuttavia, ancor fatto decorrere da un atto interno e incontrollabile come la consegna del ruolo al Concessionario.
L’intervento del Giudice delle leggi fu immediato, attraverso la sentenza n. 280/2005, dichiarò “l’illegittimità costituzionale dell’art.25 del D.P.R. 29 settembre 1973, n.602, come modificato dal decreto legislativo 27 aprile 2001, n.193, nella parte in cui non prevede un termine, fissato a pena di decadenza, entro il quale il concessionario deve notificare al contribuente la cartella di pagamento delle imposte liquidate ai sensi dell’art. 36 bis del D.P.DR. 29 settembre 1973, n.600”
Giova esporre le considerazioni espresse dalla Corte Costituzionale in predetta sentenza.
In primo luogo, la Corte ha ritenuto di non potere che trarre “la conseguenza della illegittimità costituzionale dell’art.25, come modificato dal citato del Dlgs n.193/2001, non essendo consentito, dall’art. 24 della Costituzione, lasciare il contribuente assoggettato all’azione esecutiva del fisco per un tempo indeterminato e comunque, se corrispondente a quello ordinario di prescrizione, certamente eccessivo e irragionevole..”.
Il quadro normativo, sottolineava la Corte Costituzionale, era rimasto sostanzialmente immutato anche dopo la modifica dell’art. 25 del D.P.R. n. 602/1973, operata dall’art. 1 della legge n. 311/2004, poiché, pur stabilendosi che “il concessionario notifica la cartella di pagamento.., a pena di decadenza, entro l’ultimo giorno del dodicesimo mese successivo a quello di consegna del ruolo”, è evidente che “in assenza di un termine certo fissato per la consegna del ruolo, è totalmente inefficace il termine decadenziale privo di un dies a quo”.
Per tale motivo, la Consulta auspicava un indispensabile intervento legislativo con il quale si colmasse tale lacuna.
L’invito della Corte Costituzionale è stato immediatamente accolto dal legislatore con la conversione in legge del D.L. 17 giugno 2005 n. 106; con la predetta legge di conversione fu introdotto il comma 5-bis all’art. 1 del D.L. n. 106/2005, con il quale, “ al fine di garantire l’interesse del contribuente alla conoscenza in termini certi, della pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni”, si disponeva che la notifica delle conseguenti cartelle di pagamento avvenisse entro specifici termini di decadenza, diversificati a seconda che si trattasse delle dichiarazioni presentate dal 1° gennaio (lett. a), delle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003 (lett. b) ovvero dalle dichiarazioni presentate fino al 31 dicembre 2001 (lett. c).
Inoltre, al predetto art.1 , fu aggiunto il comma 5-ter, il quale , “in conseguenza di quanto previsto dal comma 5-bis e al fine di conseguire, altresì, la necessaria uniformità del sistema di riscossione mediante ruolo delle imposte sui redditi e sull’imposta sul valore aggiunto”, disponeva l’abrogazione dell’art. 17 del D.P.R. n. 602/1973 e riscriveva il primo comma del successivo art. 25, in cui da quel momento si stabiliva che: “il concessionario notifica la cartella di pagamento al debitore iscritto al ruolo o coobbligato nei confronti dei quali procede, a pena di decadenza,entro il 31 dicembre:
a) del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di liquidazione prevista dall’art. 36 bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n.600;
b) del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di controllo formale prevista dall’art. 36 ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 197, n.600;
c) del secondo anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo, per le somme dovute in base agli accertamenti d’ufficio”.
Tale formulazione del succitato articolo è rimasta invariata fino a oggi, salvo alcune integrazioni non rilevanti ai fini della presente trattazione.

3.2. La Suprema Corte dirime il contrasto giurisprudenziale sull’interpretazione dell’art. 2953 c.c. da applicare ai crediti erariali (Cass. Civ. SS.UU. n. 23397/2016).

Decorso il termine decadenziale per la notifica della cartella esattoriale, è stato posto all’esame alle Sezioni Unite della Suprema Corte quando si prescrivono le pretese delle Pubblica Amministrazione (Agenzia delle Entrate, INPS, INAL, Comuni, Regioni ecc.).
In particolare, la decisione della Suprema Corte (Cass. Civ., SS.UU., n. 23397/2016) verteva sull’interpretazione dell’art. 2953 c.c. “con riguardo specifico all’operatività o meno della […] conversione del termine prescrizionale breve in quello ordinario decennale” nelle fattispecie originate dalla notifica, nei confronti del cittadino, di “ atti di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva” afferenti i crediti statali sia di natura tributaria (Agenzia delle Entrate), che extratributaria (INPS,INAIL,Comuni).
In particolare, nell’ordinanza di rimessione si sottolineava che era primario valutare se la prescrizione breve (5 anni) “sia applicabile anche nelle ipotesi in cui la definitività dell’accertamento del credito derivi da atti diversi rispetto a una sentenza passata in giudicato”.
A ben vedere, il Supremo Consesso aveva il delicato compito di stabilire se “la decorrenza del termine, pacificamente perentorio, per fare opposizione alla cartella di pagamento di cui all’art. 24, comma 5 del dlgs 26 febbraio 1999, n. 46, pur determinando la decadenza della possibilità di proporre impugnazione, produca soltanto l’effetto sostanziale dell’irretrattabilità del credito oppure determini anche l’effetto di rendere applicabile l’art. 2953 c.c. ai fini del termine di prescrizione breve(quinquennale secondo l’art. 3, commi 9 e 10, della legge n.335 del 1995) in quello ordinario decennale”.
Invero, la Suprema Corte, in passato, aveva mantenuto un orientamento tendenzialmente compatto sul punto, secondo il quale “si può verificare la conversione della prescrizione da breve a decennale soltanto per effetto di sentenza passata in giudicato, oppure di decreto ingiuntivo che abbia acquisito efficacia formale e sostanziale o anche di decreto o sentenza penale di condanna divenuti definitivi” (v. Cass. 24 marzo 2006, n. 6628; Cass. 27 gennaio 2014, n.1650; Cass. 29 febbraio 2016, n. 3987).
Per quanto riguardo la riscossione coattiva dei crediti, l’art. 2953 c.c. è “applicabile esclusivamente quando il titolo sulla base del quale viene intrapresa la riscossione non è più l’atto amministrativo, ma un provvedimento giurisdizionale divenuto definitivo” (v. Cass. 3 gennaio 1970, n.1; Cass. 22 dicembre 1989, n. 5777; Cass. 10 marzo 1996 n.1965; Cass. 11 marzo 1996, n. 1980).
Di fatto, la sentenza ha chiarito che la omessa impugnazione di un provvedimento accertativo o esattoriale non può concedere, all’atto in oggetto, di acquistare “efficacia di giudicato”, giacchè i citati atti sono “espressione del potere di auto accertamento e di autotutela della PA” (Cass. n. 12263/07; Cass. n. 24449/06; Cass. n. 8335/03).
Per tale ragione, l’inutile decorso del termine perentorio per proporre l’opposizione, pur determinando la decadenza dell’impugnazione, non produce effetti di ordine processuale, ma solo l’effetto sostanziale dell’irretrattabile del credito […], con la conseguente inapplicabilità dell’art. 2953 c.c. ai fini della prescrizione (v .Cass. 25 maggio 2007 ,n. 12263; Cass.16 novembre 2006, n. 24449; Cass. 26 maggio 2003, n. 8335).
Già nella sentenza a S.U., la n. 25790/09, il Supremo Consesso risolse la problematica “prescrizionale” ai fini delle sanzioni tributarie; in tale sede, la Corte di Cassazione ha affermato che la prescrizione decennale è applicabile alla richiesta dell’Agenzia delle Entrate laddove esista “ una sentenza passata in giudicato, […] mentre se la definitività della sanzione non deriva da un provvedimento giurisdizionale irrevocabile vale il termine di prescrizione di cinque anni, previsto dall’art. 20 del Dlgs n.472/97, atteso che il termine di prescrizione entro il quale deve essere fatta valere l’obbligazione tributaria principale e quella accessoria relativa alle sanzioni non può che essere di tipo unitario”.
Al riguardo, per comprendere meglio la questione giuridica sottoposta all’esame della Suprema Corte, giova a tal proposito menzionare la sentenza della Consulta, precedentemente esposta nella presente disamina, che ha statuito perentoriamente, per rispettare il diritto di difesa, tutelato dall’art. 24 cost, “non è consentito lasciare il contribuente assoggettato all’azione esecutiva del fisco per un tempo indeterminato e comunque, se corrispondente a quello ordinario di prescrizione”.
In conclusione, la Corte di Cassazione, richiamando la giurisprudenza succitata, in particolare le S.U. n. 25790/2009, ha affermato che la mancata impugnazione di un avviso d’accertamento della P.A. o di un provvedimento esattoriale dell’Ente della Riscossione , “… pur determinando la decadenza della possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto dell’irretrattabilità del credito contributivo senza determinare la c.d.”conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale secondo l’art. 3, commi 9 e 10, della legge n. 335 del 1995) in quello ordinario( decennale), ai sensi dell’art.2953 c.c”.
Ebbene, la trasformazione da prescrizione quinquennale in decennale si perfeziona soltanto con l’intervento di un “titolo giudiziale divenuto definitivo” (sentenza o decreto ingiuntivo); per esempio, la cartella esattoriale, l’avviso dell’addebito dell’INPS e l’avviso d’accertamento dell’Amministrazione finanziaria, costituiscono per propria natura incontrovertibile semplici atti amministrativi di autoformazione e, pertanto, sono privi dell’attitudine di acquistare efficacia di giudicato.
Confrontando le conclusioni a cui è approdata la Suprema Corte nella sentenza in esame rispetto alla conclusioni tratte dalla stessa con la nota ordinanza n. 20213/15, il Supremo Consesso, nella sentenza oggetto della presente trattazione, ha ampliato l’ambito d’applicazione della prescrizione breve; infatti, nella citata ordinanza era stato affermato che la prescrizione quinquennale operava laddove il titolo esecutivo fosse costituito dalla sola cartella esattoriale dell’Ente della Riscossione.
Pertanto, nelle altre ipotesi di sussistenza del credito erariale (ad esempio la notifica dell’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate) avrebbe dovuto essere introdotta la prescrizione decennale.
Il nuovo orientamento ha, quindi, esteso i margini difensivi del cittadino, il quale potrà chiedere al giudice l’estinzione del credito statale per intervenuta prescrizione breve, non soltanto nei casi di notifica di cartella esattiva (art. 36 bis e/o ter, DP.R. n. 600/73), bensì anche nelle fattispecie riguardanti qualsiasi atto amministrativo di natura accertativa (avvisi di accertamento, avvisi di addebito, ecc..).

Avv. Maurizio Villani
Avv. Lucia Morciano
 

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avv. maurizio villani

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