«Così mi hanno tolto il lavoro e la dignità» Il mobbing, la giustizia lenta, l'indifferenza: una donna allo sbando Ieri/Era educatrice penitenziaria, vincitricenel 1982 del concorso nazionale del Ministero Assegnata al carcere barese nel 2004 Morte

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Per affacciarsi, lacrime e disperazione devono avere un po’ di intimità. Fabrizia è davanti a un cronista, dopo il pellegrinaggio tra dirette e talk show di Stato. «Mi sento viva solo perché ho i documenti anagrafici. Ma la mia è una morte bianca».

Voce da baritono. Trucco accennato. Occhi bui e corpo disincarnato dalle trame irrisolte di tribunali che non le hanno ridato lavoro e dignità: «Sono un educatore penitenziario per adulti, vincitrice nel 1982 del concorso nazionale bandito dal Ministero della Giustizia. Assegnata nel dicembre 2004 alla casa circondariale di Bari, nel marzo 2005 subivo un infortunio a causa di una grave caduta i cui esiti furono ampiamente documentati ed ulteriormente corredati da due cartelle cliniche. Da qui la mia domanda di riconoscimento di causa di servizio e la richiesta di essere adibita ad attività lavorativa d’ufficio presso il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Bari. Soltanto in questa sede vi è l’area rieducativa-trattamentale del mio profilo professionale in alternativa al lavoro nelle sezioni della casa circondariale».

Richiesta ignorata. Fabrizia resta nei corridoi sbarrati e gira le «sezioni» con il collare ortopedico e sforzi fisici. Pensava a tutto tranne che a un martello burocratico capace di sbriciolare l’insieme. «Sono vedova da 23 anni, avevo due figli, studenti, a carico e vivevamo del mio lavoro. La direzione del carcere, dopo un anno non avviava ancora procedimento di causa di servizio che invece dovrebbe concludersi entro sei mesi dalla domanda. Perciò il mio avvocato ricorse ex art. 700 ed in agosto 2006 il giudice del lavoro, ordinò alla mia amministrazione di definire il procedimento di riconoscimento di causa di servizio. Fui collocata negli uffici del Provveditorato ma dopo cinque mesi la facente funzioni mi rimandò nelle sezioni del carcere. Da quel momento, la direzione mi collocava arbitrariamente in una fattispecie di malattia, in base all’articolo 21 comma 2 dell’ordinamento penitenziario, che dà diritto alla sola conservazione del posto di lavoro. Nel settembre 2009 subii un altro infortunio all’uscita delle sezioni, causato dagli sforzi divenuti ormai insostenibili. Soccorsa dal sanitario del carcere venivo inviata al pronto soccorso dove mi diagnosticavano un blocco cervicale. Disperata, nel novembre 2009 chiedevo e venivo convocata alla Direzione generale del Ministero. Ai due funzionari incaricati di seguire il mio caso depositai tutta la documentazione. Li pregai di esercitare urgentemente controlli sulla mia posizione giuridico economica amministrativa, già resa caotica dalla direzione di Bari. Ero stata tenuta senza stipendio per un anno e persino nei 40 giorni di prognosi dettati dalla Commissione medica militare. In tutto quel periodo ho ricevuto regolarmente le visite fiscali, a volte, è documentato, anche quando ero in servizio e risultavo “assente dal domicilio”. Erano iniziate pesanti decurtazioni sulle mie buste paga. Quotidianamente, ricevevo una raccomandata in cui mi ricordavano di essere nella tipologia di ”sola conservazione del posto di lavoro senza diritto ad alcun beneficio, interruzione dell’anzianità e privazione delle ferie”. Iniziai a dar fondo ai miei risparmi per mantenere la mia famiglia. La Direzione generale aveva garantito che avrebbero provveduto subito. Mai nessuno però, e ribadisco nessuno, ha preso in mano quella mia posizione giuridico economica amministrativa».

Una sigaretta tira l’altra. Non potrebbe, perché il cuore ha già fatto le bizze una volta. Ma il racconto continua. Quel quadro di presunto mobbing non ha ancora le tinte più oscure: «Nel luglio 2010, mentre stavo affrontando il secondo sfratto per morosità a causa delle ingenti trattenute sulle buste paga, mi venne comunicato il licenziamento. Motivazione: otto giorni di ferie non autorizzate, su quattro anni da che si sosteneva non ne avessi diritto invitandomi ripetutamente a mandare certificato medico. Inviai un telegramma al ministero comunicando questo ulteriore sopruso».

Chi castiga dovrebbe sapere cosa; e chi inveisce sapere perché. È invece Fabrizia sembra in un teatro dell’assurdo che fa sbiadire la fiducia verso le istituzioni: «Ben tre pronunce del Consiglio di Stato, e il relativo decreto del presidente della Repubblica, hanno acclarato la tempestività della mia domanda di riconoscimento della causa di servizio smontando l’ulteriore tentativo di negarmi ancora ogni diritto, con tutti i benefici ad essa conseguenti, ferie comprese. Sono trascorsi tre anni da quel licenziamento. Una moltitudine di inutili carteggi, quando costituiva preciso dovere dell’amministrazione penitenziaria, provveditorato compreso, controllare e mettere ordine nella mia posizione resa da essi stessi talmente caotica ed illegittima da aver preferito licenziarmi».

Il tempo gira la sua sferza e la vita diventa un greto che smotta, anche per lei, moglie di un avvocato, cognata di un magistrato: «Ho venduto tutto ciò che avevo pur di sopravvivere. Valori materiali ma anche affettivi che avevano segnato il mio matrimonio, gli anniversari, le nascite, i battesimi i compleanni. Un conosciuto avvocato dello Stato, durante il ricorso presentato dal mio legale nel 2010, dopo il licenziamento, sostenne - dichiarandolo anche in atti - che il giudice del lavoro non avrebbe dovuto dare sussistenza al periculum in mora in quanto ”la ... può ben attingere ai beni personali per mantenersi”. Infatti. Le uniche cose di cui non ho avuto coraggio di privarmi sono la scrivania di mio marito avvocato ed il suo archivio. Ho ancora davanti agli occhi la sua mano che sottolineava con la matita i passi salienti delle udienze. Era un uomo umile nonostante la notorietà. Mi illudo di poterli restaurare e conservarli per mio figlio, privato anch’egli di tutto. Forse dovrei chiederne scusa a quel “rappresentante dello Stato” che con le sue parole bruciò quel giorno la mia pelle. La mia dignità però è integra. Come la mia anima».

Le lacrime premono sulle palpebre, non trabordano. La voce è rotta perché la cosa più difficile da dire è la questua in parrocchia, gli aiuti economici chiesti al Comune per non far appassire l’ultimo filo d’erba rimasto. E invece sono arrivati gli sfratti, ora anche l’auto è stata pignorata. Quando sei un due di spada e il niente di denari e sei ridotta a pochi chili da poggiare sulla branda della sera è difficile credere che all’insaputa i giorni dissipati rodano il deserto, succhino il silenzio e preparino il compenso. Fabrizia è un elastico che alle dieci del mattino è già logoro: difficile fare la madre di una figlia che è altrove, e di un figlio che paga dazio alla disperazione: «Mi hanno assurdamente ribaltato la vita, distrutto la carriera ed il diritto alla pensione, calpestato capricciosamente e ciecamente tutto ciò che avevo costruito. Sono rimasta una persona perbene. La fede di cui ho avuto il dono mi sorregge. Pur nell’amara certezza dell’indifferenza delle istituzioni: dal 2008 al 2012 regolarmente, con numerose lettere raccomandate, sono stati interessati ed informati dal mio legale, nell’ordine: il ministro Angelino Alfano, il ministro Paola Severino, il capo dipartimento e il provveditore, affinchè io fossi sollevata da quell’ingiusto licenziamento. Mai nessun riscontro, tutto cade nel silenzio. L’immobilità e l’indifferenza sono norma. Spero venga posto rimedio all’ingiustificabile tormento di ben otto anni. Aspetto l’immediata reintegra al mio lavoro, la restituzione delle somme che mi sono state sottratte, la ricostruzione della carriera e gli stipendi».

Fabrizia è una statua raggelata in attesa che germoglino semi di carta. E con una bellezza incatramata e un’inquietudine profonda, fa l’ultimo tiro prima di ridurre a cicca l’ennesima sigaretta. «Non posso attendere i tempi della giustizia ordinaria: non ho più nulla, sono gravemente indebitata e senza lavoro non riesco più a sopravvivere».

Il dito asciuga l’accenno di lacrima: «Sono alla decozione. Quella mia è una morte bianca».

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