Art. 11 DDL semplificazione fiscale e l’obbligo del contraddittorio preventivo

Art. 11 DDL semplificazione fiscale e l’obbligo del contraddittorio preventivo

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L’art. 12, comma 7, dello Statuto dei Diritti del Contribuente prescrive che “nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L'avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza…”.

La norma costituisce uno dei principi generali dell’ordinamento tributario e, in sostanza, prevede una sorta di contraddittorio anticipato tra contribuente ed Amministrazione al fine non solo di fornire maggiori garanzie al primo, ma anche maggiore efficacia all’accertamento tributario.

Il mancato rispetto dei 60 giorni è consentito solo qualora vi siano particolari e motivate ragioni di urgenza. La necessità della motivazione sull’eventuale urgenza è espressione del generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi.

2. Dibattito giurisprudenziale sull’obbligo del contraddittorio preventivo.

Recentemente si è accesso un forte contrasto giurisprudenziale riguardo l’obbligatorietà o meno dell’attivazione del contraddittorio preventivo tra i contribuenti e Amministrazione Finanziaria e, di conseguenza, sugli effetti che il mancato esperimento di predetta pratica abbia sugli atti adottati dall’ente impositore.

Il contrasto trae origine dal fatto che, in caso d’inosservanza del suddetto termine, la norma non prevede espressamente alcuna sanzione a carico dell’Ufficio; per tale ragione, si sono avute posizioni diverse e contrastanti in relazione a cosa accade in seguito a tale comportamento dell’Ufficio.

A tal proposito, occorre esaminare le recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità e di merito tra loro contrastanti.

In primo luogo, la Suprema Corte, per dirimere alcuni dubbi per gli accertamenti in seguito a verifica, a sezioni unite, ha dichiarato invalido l’atto emesso prima dei 60 giorni, termine quest’ultimo posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale e, pertanto, applicabile in tutte le ipotesi di accesso presso i locali del contribuente (Cass.S.U., n.18184/2013).

Successivamente, le Sezioni Unite della Suprema Corte, con sentenza n.19667 del 18 settembre 2014,hanno chiarito i dubbi relativi all’applicabilità dell’istituto ai controlli a tavolino e ribadito che incombe sugli uffici un generale obbligo di attivare sempre il contraddittorio preventivo, rispetto all’adozione di un provvedimento che possa incidere negativamente sui diritti e sugli interessi del contribuente, per cui, in caso contrario, l’atto è nullo; tale principio è applicabile a qualunque procedimento amministrativo tributario, a prescindere dal nome dell’atto stesso.

A tal proposito, la Suprema Corte, a Sezioni Unite, con sentenza n.24823/2015, ha compiuto un passo indietro ed è giunta a conclusioni totalmente differenti, affermando che non esiste nel nostro ordinamento un diritto generalizzato al contraddittorio preventivo, salvo non sia espressamente previsto per legge. Ciò è dovuto al fatto che si tratta di un principio di derivazione comunitaria e, pertanto, applicabile solo ai tributi “armonizzati”, laddove, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta, in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto.

Ciò posto, si deduce che la disciplina in esame si ritiene applicabile per i controlli effettuati tramite accessi, ispezioni o verifiche sui luoghi di riferimento del contribuente laddove, invece, per i controlli fiscali realizzati in ufficio dai verificatori, vale a dire i c.d. “accertamenti a tavolino”, sorgono dubbi in merito all’esistenza di un principio generale di obbligo al contradditorio preventivo.

Successivamente, la Corte di Cassazione è ritornata sul punto con la sentenza n. 4543/ 2015, richiamando la nota sentenza delle Sezioni Unite (n. 18184/2013), e ha affermato che l’inosservanza del termine di 60 giorni per l’emanazione dell’accertamento determina, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus. Detto termine, infatti, è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione di principi costituzionali.

Il mancato rispetto dei 60 giorni, dunque, determina di per sé l’illegittimità dell’atto, a meno che non vi siano specifiche ragioni di urgenza, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della pretesa impositiva.

Peraltro, secondo la Corte di Cassazione, è l’Ufficio che deve provare, in caso di mancato rispetto del termine, l’effettiva necessità di emettere l’atto con urgenza.

Così,successivamente, con ordinanza del 26 maggio 2016, n. 10903, la Suprema Corte ha stabilito che: “Come evidenziato, invero, dalla stessa sentenza n. 24823/2015 delle Sezioni Unite, il dato testuale della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, univocamente tendente alla limitazione della garanzia del contraddittorio procedimentale alle sole “verifiche in loco”, è da ritenersi “non irragionevole”, in quanto giustificato dalla peculiarità stessa di tali verifiche, “caratterizzate dall’autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca di elementi valutativi a lui sfavorevoli; peculiarità che giustifica, quale controbilanciamento, il contraddittorio al fine di correggere, adeguare e chiarire, nell’interesse del contribuente e della stessa Amministrazione, gli elementi acquisiti presso i locali aziendali; siffatta peculiarità, differenziando le due ipotesi di verifica (“in loco” o “a tavolino”), giustifica e rende non irragionevole il differente trattamento normativo delle stesse, con conseguente manifesta infondatezza della sollevata questione di costituzionalità con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost.. Nè una questione di costituzionalità, sempre con riferimento all’art. 3 Cost. può porsi per la duplicità di trattamento giuridico tra “tributi armonizzati” e “tributi non armonizzati, atteso che, come anche in tal caso evidenziato dalla su menzionata sentenza n. 24823/2015, l’assimilazione tra i due trattamenti è preclusa in presenza di un quadro normativo univocamente interpretabile nel senso dell’inesistenza, in campo tributario, di una clausola generale di contraddittorio procedimentale”.

Sempre sulla stessa linea interpretativa, con altra sentenza in tema di verifiche fiscali (Cass. Civ., Sez. V, Sent., 27 maggio 2016, n. 10988), il Supremo Consesso ha stabilito che l’inosservanza dell’obbligo di notificare il detto avviso al contribuente e di concedergli il previsto termine dilatorio, al fine di fornire le prove richieste (obbligo che non ammette equipollenti), determina – in applicazione dei principi affermati dalle sezioni unite nella sentenza n. 18184 del 2013 in relazione all’analoga disposizione di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, – un vizio di legittimità dell’atto impositivo, emesso in assenza dell’avviso o prima della scadenza del termine dilatorio: si tratta, anche in questo caso, di garantire il pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, con la conseguenza che la “sanzione” dell’invalidità dell’atto conclusivo del procedimento, pur non espressamente prevista, deriva ineludibilmente dal sistema ordinamentale, comunitario e nazionale, e, in particolare, dal rilievo che il vizio del procedimento si traduce, nella specie, in una divergenza dal modello normativo di particolare gravità, in considerazione della rilevanza della funzione cui la norma assolve e della forza impediente, rispetto al pieno svolgimento della funzione, che assume il fatto viziante.

Inoltre, in tema di contraddittorio endoprocedimentale, la Corte di Cassazione ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, comma 7, dello Statuto dei Diritti del Contribuente - come interpretato dalle Sezioni Unite, con esegesi ritenuta costituire "diritto vivente" -, univocamente tendente alla limitazione della garanzia del contraddittorio procedimentale alle sole "verifiche in loco", per presunta violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., nonché del canone di ragionevolezza intrinseca ex art. 97 Cost. e del diritto di difesa ex art. 24 Cost., anche in riferimento all'art. 111 Cost (Cass., ordinanza n.6527/2016).

Precisamente, a parere della Corte di Cassazione, è manifestamente infondata la questione di costituzionalità della norma dello Statuto del Contribuente che limita la garanzia del contraddittorio procedimentale alle sole verifiche in loco.

Le Sezioni Unite hanno, infatti, escluso, sulla base della normativa nazionale, l'esistenza di una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale, e cioè di un principio generale per il quale l'Amministrazione, anche in assenza di specifica disposizione, sia tenuta ad attivare, pena la nullità dell'atto, il contraddittorio endoprocedimentale ogni qualvolta debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente.

In sostanza, per i tributi armonizzati sussiste un principio generale di obbligo al contraddittorio, “in relazione ai quali detto obbligo è desumibile dell’articolo 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e sempre che, come più volte ribadito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, l’interessato abbia dato prova dell’incidenza effettiva della violazione sulla formazione dell’atto che ha recato pregiudizio allo stesso” (Corte Costituzionale, Ordinanza 13 luglio 2017, n. 187).

I giudici di merito non pare si siano adeguati alla pronuncia della Corte di Cassazione n. 24823/15, confermando che le garanzie previste dall’articolo 12 non vanno necessariamente circoscritte agli accessi presso la sede del contribuente, poiché, la locuzione “accessi, ispezioni e verifiche”, può riguardare tutti i tipi di controllo e, dunque, anche quelli cosiddetti “a tavolino” (da ultimo,CTP Reggio Emilia, sentenza 5/01/16).

Ed allora, va evidenziato che, con riferimento ai tributi non armonizzati, non è possibile individuare un orientamento giurisprudenziale univoco.

Si veda, a tal proposito, quanto sancito dalla Corte di Cassazione, con ordinanza 19 aprile 2017, n. 9823, che, richiamando la pronuncia precedente della stessa Corte (Cass. n. 24823/2015), ha stabilito che “in caso di accertamenti “a tavolino” (come nella specie, traendo origine il controllo da verifiche bancarie e non anche da accessi, ispezioni e verifiche nei locali del contribuente), non sussiste per l’Amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg ed Irap” (nello stesso senso, ordinanza Cass. n. 27422 del 20 novembre 2017).

Pertanto, attualmente esistono due distinzioni, innanzitutto tra la tipologia di controllo adottata (se presso la sede o a tavolino) e, poi, se si tratti di un tributo armonizzato o meno.

Con l’ordinanza n. 380 del 10 gennaio 2017, la Suprema Corte, ritenendo tuttora aperto il dibattito sull’esistenza di un principio generale di osservanza del contraddittorio procedimentale e, proprio sul presupposto che il contribuente abbia sempre diritto di essere preavvisato, dichiara nulla l’iscrizione ipotecaria eseguita senza preavviso e inaudita altera parte.

Infine, la Corte Costituzionale, non ha aiutato a dirimere la questione, dichiarando inammissibile, con tre distinte ordinanze, la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Commissione Tributaria Regionale della Toscana, dalla Commissione Tributaria Provinciale di Siracusa e dalla Commissione Tributaria Regionale della Campania (Corte Costituzionale, Ordinanze 13 luglio 2017, n. 187, n.188, n. 189), in merito alla dubbia legittimità delle norme del nostro ordinamento che non prevedono forme di contraddittorio preventivo anche per le attività di controllo fiscale non precedute da accessi.

Di recente, la giurisprudenza di legittimità, inoltre, si è pronunciata con ordinanza n.19128/2018, ribadendo l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità secondo il quale le citate garanzie trovano applicazione a qualsiasi atto di accertamento con accesso. Con tale ordinanza è stato precisato che, anche per l’accesso breve, occorre riconoscere il diritto al contraddittorio, nonostante il controllo sia poi proseguito nell’ufficio dei verificatori: la norma, infatti, non prevede dei limiti minimi di permanenza, con la conseguenza che se l’amministrazione accede presso i locali del contribuente è tenuta al rispetto delle garanzie dello statuto.

Per tale ragione, è illegittimo l’avviso di accertamento emesso prima dei 60 giorni dall’accesso eseguito per un mero riscontro dei dati contenuti negli estratti conto già acquisiti dall’amministrazione finanziaria: il diritto di contraddittorio, previsto dallo Statuto del Contribuente (legge n. 212/2000) va riconosciuto in tutte le ipotesi di accesso presso la sede del contribuente.

Dello stesso avviso è, altresì, la recente giurisprudenza di merito(Ctr Lombardia, n. 2506/9/2018) che ha ribadito, a tal proposito, che si tratti di una verifica “a tavolino” o di un accesso nei locali del contribuente, nelle controversie che riguardano tributi armonizzati e non, la mancata redazione di un processo verbale di constatazione (Pvc) al termine della verifica, è causa di nullità dell’atto di accertamento.

In particolare, i giudici di appello richiamano l’articolo 24 della legge n. 4/1929 secondo cui «le violazioni delle norme contenute nelle leggi finanziarie sono constatate mediante processo verbale». Secondo la CTR di Milano, questa norma, tuttora vigente in quanto non abrogata dall’articolo 29 del Dlgs n. 472/97, prevede un obbligo generalizzato in capo all’ufficio di consegnare il Pvc al contribuente prima della notifica di un qualsiasi atto impositivo. Ciò vale anche nei casi dei cosiddetti accertamenti a tavolino, cioè effettuati senza l’accesso nei locali del contribuente.

Questo principio è giustificato dal fatto che il verbale è l’atto nel quale:

-da un lato, sono riassunte le modalità operative del controllo;

-dall’altro, sono constatate le violazioni delle norme tributarie.

Soltanto attraverso la formazione di un Pvc, infatti, è possibile assicurare il rispetto delle garanzie poste dall’articolo 12, comma 7, della legge n. 212/2000 (diritto al contraddittorio), che consente al contribuente di formulare all’ufficio le proprie osservazioni e richieste prima della notifica ( in tal senso anche la Ctr Lombardia n. 5538/2016). Secondo i giudici milanesi, nel caso di specie, non è rilevante che il contribuente potesse accedere all’istituto dell’accertamento con adesione, in quanto il contraddittorio deve essere garantito anche nella fase procedimentale in tutte le controversie che riguardano tributi armonizzati (Iva) e non, legati da matrice comune.

In ultimo, il Supremo Consesso, con ordinanza n. 17210 del 2 luglio 2018, ha affermato che va annullato l’accertamento dell’ufficio che non ha visionato (o almeno valutato) le memorie difensive al Pvc. In tema di imposte sui redditi e Iva, a norma dell’articolo 12, comma 7, della legge n. 212/2000, la nullità dell’accertamento consegue alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge, oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie, nonché al mancato obbligo di (almeno) valutare le osservazioni del contribuente, pur senza esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo. Secondo la Suprema Corte, “il problema non è dunque quello della mancata motivazione… ma è piuttosto quello di aver omesso un preciso adempimento fissato per legge, ossia di prendere visione delle memorie”. Il citato articolo 12 impone all’ufficio di valutare le «osservazioni e richieste» del contribuente, nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente. Potrà riscontrarsi una (oggettiva) valutazione, solo in presenza di oggettiva motivazione nell’avviso di accertamento, pena il vizio di motivazione dell’atto, ex articolo 42, comma 2, del Dprn. 600/1973. Considerato che il contribuente contesta i rilievi, l’ufficio, per dimostrare la valutazione delle memorie ed osservazioni presentate, dovrà demolirle punto per punto, dimostrando l’errore del contribuente.

In conclusione, alla luce degli orientamenti giurisprudenziali appena esposti, è di tutta evidenza, dunque, come il termine in oggetto (ovvero i 60 gg prima della notifica dell’avviso di accertamento) abbia il preciso scopo di tutelare i fondamentali principi costituzionali di collaborazione e buona fede nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria, sanciti dagli art. 3 e 97 della Costituzione ed attuati, in materia tributaria, dall’articolo 10 dello Statuto dei diritti del contribuente ed, altresì, di garantire il diritto di difesa del contribuente sancito dalla Costituzione.

3. Art. 11 D.D.L. n.1074/2018.

La proposta di legge d’iniziativa parlamentare, D.D.L. n.1074/2018, recante "Disposizioni per la semplificazione fiscale, il sostegno delle attività economiche e delle famiglie e il contrasto dell'evasione fiscale", che ha lo scopo di razionalizzare il sistema tributario, prevede, all’art. 11, anche l’introduzione del contraddittorio endoprocedimentale tra contribuente ed Ufficio Finanziario come fase obbligatoria in tutti i procedimenti di controllo fiscale e da attuarsi, quindi, sempre in via

preventiva rispetto alla formazione dell’atto impositivo.

Come si può leggere dalla relazione al disegno di legge, la disposizione normativa contenuta nel citato art.11 rappresenta “…l’applicazione dei principi declinati dallo Statuto dei diritti del contribuente, incrementa l’apporto probatorio fondante il recupero a tassazione e definisce in maniera più puntuale il quantum dell’obbligazione tributaria, in ossequio ai principi di effettività, realtà ed attualità della capacità contributiva”.

Come anzidetto, oggi, è noto che se l’accertamento è “a tavolino”, e salvo che l’imposta non ricada nella sfera del diritto UE e del recupero di imposte “non armonizzate”, l’Amministrazione Finanziaria non ha alcun obbligo di instaurare il contraddittorio endoprocedimentale.

Tuttavia, nell’ordinamento nazionale non è previsto neanche un obbligo generalizzato dell’Agenzia delle Entrate di anticipare al contribuente gli eventuali esiti di un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente che comporti, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto.

Nelle intenzioni della proposta legislativa vi è la volontà di attuare una procedura di confronto con l’Amministrazione Finanziaria, secondo una precisa e articolata sequenza procedimentale, prevedendo l’obbligo per l’Ufficio sia di redigere processi verbali del contraddittorio, sia per raccogliere deduzioni e documenti prodotti dal contribuente in tale ambito per provare gli esiti degli incontri svolti.

Precisamente, l’art. 11 di predetto DDL prevede che, per tutti gli avvisi di accertamento, l’Ufficio, a pena d’inammissibilità, deve prima invitare il contribuente a un contraddittorio preventivo.

Nondimeno, tale obbligo generalizzato all’espletamento preventivo del contraddittorio è escluso per gli avvisi di accertamento parziali (art. 41 bis, D.P.R. n. 600/1973).

Attualmente, l’Agenzia delle Entrate, oramai, dichiara formalmente tutti gli avvisi di accertamento come parziali, ex art. 41 bis del D.P.R. n. 600/1973, anche se non ne hanno i presupposti.

Secondo tale proposta legislativa, il procedimento si intenderebbe concluso decorsi improrogabilmente 90 giorni dalla data di notifica dell’invito a comparire, assegnando un termine per la convocazione del contribuente non inferiore a 15 giorni e non superiore a 45 giorni e prevedendosi, altresì, la sospensione di tutti i termini di decadenza per ambedue le parti durante il periodo di confronto.

Nel caso in cui l’Ufficio intendesse disattendere, in tutto o in parte, le ragioni del contribuente, in tal caso verrebbe disciplinata la necessità di darne conto nella motivazione del successivo avviso di accertamento e di argomentare circa le giustificazioni recate dal contribuente; pertanto, quest’ultimo vedrebbe inibirsi, in assenza della definizione concordata della controversia in questa prima fase, un successivo ricorso all’istituto dell’accertamento con adesione.

Per di più, il contribuente, secondo la proposta di legge, dovrebbe produrre in questa fase preventiva ogni notizia, dato o documento difensivo eventualmente richiesto dall’Ufficio; è, infatti, espressamente previsto dal legislatore che, in caso d’inottemperanza alle formali richieste, scatterebbero le c.d. preclusioni probatorie, ovvero l’impossibilità che quanto non esibito possa essere preso in considerazione, a favore del contribuente, in sede amministrativa o contenziosa.

Da ultimo, in caso di mancata comparizione e decorsi 60 giorni dalla data di notifica dell’invito, senza che il contribuente si sia attivato per fornire elementi di valutazione e prova a proprio favore, l’invito notificato produrrebbe comunque gli effetti propri di un avviso di accertamento andando, quindi, a penalizzare chi intendesse sottrarsi a questa nuova opportunità data dal legislatore di poter preventivamente chiarire la propria posizione tributaria.

Pertanto, tale invito può diventare subito avviso di accertamento se ci sono i seguenti presupposti:

1) passati 60 giorni dal ricevimento dell’invito;

2) il contribuente non si è attivato nei 60 giorni;

3) l’invito ha in sé l’indicazione delle imposte, sanzioni, interessi e la motivazione.

In riferimento al termine non inferiore ai quindici giorni e non superiore a quarantacinque giorni, previsto per il contribuente, per la produzione di documenti e memorie scritte o per la comparizione presso la sede dell’ufficio al fine dell’instaurazione del contraddittorio orale, considerando gli effetti legati all’avvio del procedimento, questo presenta delle criticità.

Si osserva, infatti, che l’avvio del procedimento preclude un eventuale successivo ricorso all’istituto dell’accertamento con adesione, nonché la circostanza che la documentazione e i dati richiesti e non prodotti non possono essere utilizzati tanto in sede amministrativa quanto giudiziaria.

Com’è facilmente rilevabile, predetto termine ipotizzato dall’estensore è il medesimo di quello attualmente previsto dall’art. 32, D.P.R. n. 600/1973, e dall’art. 51, D.P.R. n. 633/1972, per l’esecuzione degli adempimenti di cui alle norme succitate, ma l’invito di cui si discute è destinato a sortire ben altri effetti rispetto alla “sola” mancata o tardiva risposta all’Ufficio.

La proposta di legge, appunto, prevede che non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa, le notizie e i dati non addotti né, se puntualmente richiesti nell’invito, gli atti, i documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi all’Ufficio dal contribuente medesimo a seguito dell’invito, allo stesso modo dell’art. 32, D.P.R. n. 600/1973 e, in più, l’automatica trasformazione dell’invito in un atto impoesattivo.

Pertanto, se semplificazione vuole dire migliorare la normativa esistente, allora ciò non può che tradursi nella ragionevole dilatazione del termine assegnato al contribuente.

Alla luce delle considerazioni sovraesposte, nelle more della discussione e approvazione di predetta proposta di legge, giova riassumere il quadro attuale, sulla base dell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità finora esposta.

Pertanto, sulla base dell’interpretazione ermeneutica data dalle Sezioni Unite, la situazione attuale è la seguente:

- per i tributi non armonizzati l’obbligo di attivazione del contraddittorio preventivo, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente nelle ipotesi in cui un tale obbligo sia previsto

espressamente dalla specifica disposizione di legge;

- per i tributi armonizzati l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale assume invece un rilievo generalizzato.

Comunque, per i tributi armonizzati (quali l’IVA), sussiste la nullità del successivo atto impositivo solo se si può dimostrare che, in mancanza di violazione dell’obbligo, il procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso.

Si auspica, pertanto, un intervento del legislatore per consentire al contribuente di poter chiarire la sua posizione in ambito amministrativo, senza dover attendere di poterlo fare per la prima volta in sede contenziosa.

Avv. Maurizio Villani

Avv. Lucia Morciano

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