Al lavoratore confinato nello sgabuzzino riconosciuti i danni da "straining" per le lesioni subite a causa del comportamento dei superiori che lo hanno "messo in mezzo".

Non viene riconosciuto il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all'articolo 572 del Codice Penale perché si tratta di grande azienda e manca il requisito della familiarità ma non sono esclusi altri profili illeciti nei confronti del dipendente mobbizzato che ha comunque diritto al risarcimento del danno in sede civile

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Significativa decisione della Cassazione penale in tema di maltrattamenti e vessazioni subiti dal lavoratore. Con la sentenza 28603/13, della sesta sezione penale della Suprema Corte, pubblicata il 3 luglio dell’anno in corso, non è stata riconosciuta la sussistenza del reato di “maltrattamenti in famiglia” a carico dei dirigenti che hanno mobbizzato il lavoratore, ma non è stato escluso che i danni causati al dipendente preso di mira dallo “straining”, cioè la marginalizzazione e l’offensiva dequalificazione sul lavoro, possano configurare il reato di lesioni personali volontarie laddove pur escludendo, come detto, il delitto rubricato all’articolo 572 del codice penale non vi siano anche altri profili meritevoli di eventuale sanzione sul piano penale, come le lesioni personali, e quindi tali da poter determinare il diritto al risarcimento danni.
Nel caso in questione, in particolare, è stato accolto il ricorso della parte civile in relazione alla sentenza di assoluzione pronunciata nei confronti dei dirigenti che deve essere annullata solo agli effetti civili con riferimento al reato di lesioni personali. Viene cosi deciso il rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello, non essendo possibile un nuovo giudicato penale in assenza di impugnazione da parte del P.M.
Una bella vittoria del lavoratore messo all’angolo dai propri capi, che per Giovanni D’Agata presidente e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, vale la pena diffondere per gli effetti positivi che può avere sia in materia di tutela dei lavoratori, che in via preventiva per dissuadere i datori e i superiori gerarchici da comportamenti analoghi che purtroppo si verificano puntualmente sui luoghi di lavoro nostrani. Si tratta, infatti, del caso tipico del lavoratore italiano che in precedenza aveva un incarico di responsabilità, ed in seguito viene preso di mira dai superiori che lo emarginano progressivamente fino a confinarlo in uno sgabuzzino spoglio e sporco, dopo averlo sottoposto persino ad un pubblico “processo”: è un evidente caso di “straining”, una particolare forma di persecuzione sul lavoro che viene attuata ponendo sempre in condizione di inferiorità il dipendente che, come si suol dire, viene “messo in mezzo”.
Gli ermellini prendono atto che il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’articolo 572 del codice penale non possa configurarsi nei casi di mobbing nelle grandi aziende è un dato di fatto poiché la fattispecie incriminatrice deve comunque essere caratterizzata dal tratto della “familiarità”, che ricorre soltanto nei piccoli contesti lavorativi e “para - familiari”, per esempio nel rapporto che lega il collaboratore domestico alla famiglia presso cui è impiegato, mentre nel caso preso in esame è esclusa perché si tratta di azienda “complessa”.
Tale assunto però non esclude che al di là del delitto di maltrattamenti, non possano configurarsi ugualmente le lesioni personali volontarie, per la diversa obiettività giuridica delle due ipotesi criminose: nella specie il lavoratore demansionato ed esiliato nello stanzino delle scope patisce la situazione al punto da ammalarsi, laddove gli è diagnosticato un disturbo dell’adattamento e depressione.
 

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