"Foto razzista", Amazon nella bufera: poi le scuse e il ritiro della pubblicità

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Ci risiamo. Quasi due settimane dopo che il gigante svedese dell'abbigliamento H&M è finito nella bufera scatenata sui social, per una campagna pubblicitaria insensibile con l'accusa di razzismo, questa settimana Amazon è stata costretta a ritirare dal sito merce con una scritta razzista. L'azienda infatti ha pubblicato un catalogo dove posa, come modello, un neonato con indosso una bavetta con lo sfondo due piramidi con sotto la scritta "Slavery gets shit done" (ossia "questo si ottiene con la schiavitù"). Tra gli elementi stampati con lo slogan razzista t-shirts, tazze, bavaglini, borse e altro ancora. Un accostamento, definito "razzista" e "di pessimo gusto", che ha costretto l'azienda di commercio elettronico statunitense - sotto il fuoco di fila di una vera e propria gogna mediatica con migliaia di commenti su Twitter - a scusarsi e ritirare il catalogo pubblicitario. Tantissime le accuse: da chi ha definito la trovata pubblicitaria "disgustosa e irresponsabile". E' finita che Amazon ha dichiarato a Reuters che la merce è stata oscurata sul loro sito, non sia mai di urtare la sensibilità razziale nel mondo globale. Un'altra gaffe razzista, commenta Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”. che rischia di pesare sull'immagine della più grande Internet company al mondo. Mentre la nostra associazione si aggiunge alle altre forze che contrastano il fenomeno del razzismo, e al tempo stesso si pone come catalizzatore di quelle forze. In Italia il monitoraggio della pubblicità è affidato all’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. Il codice dello IAP stabilisce, tra l’altro, che essa deve: “rispettare la dignità della persona in tutte le sue forme ed espressioni”. Partendo da questo principio, lo “Sportello dei Diritti” quando individua uno spot manda una mail allo IAP affermando che esso contraddice quella norma. Il vantaggio di indirizzare le proteste a questo istituto è che così facendo ci rivolgiamo alle imprese, cioè a chi pianifica e sdogana le réclame. Il nostro intento non è la soppressione di un singolo spot particolarmente denigrante, perché ciò equivarrebbe ad accettare implicitamente tutti gli altri, ma quello di fare continua pressione perché l’intero fenomeno sia ripensato alla luce di una nuova sensibilità emergente.

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