Pugno duro dei giudici per i lavoratori beccati durante l'orario di lavoro con hashish. Licenziamento legittimo del lavoratore in possesso di droghe leggere intento anche a spacciare ai colleghi. La sostanza stupefacente mette a rischio la salute dei lavo

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Giro di vite dei giudici contro chi è in possesso di droghe leggere sul posto di lavoro. Licenziamento in tronco del lavoratore trovato in possesso di hashish da spacciare ad alcuni colleghi. Non contano le indagini preliminari in corso: il giudice civile può valutare anche gli elementi raccolti nell’inchiesta penale, la sostanza stupefacente mette a rischio la salute dei lavoratori. Lo stabilisce la Corte di appello di Potenza con la sentenza n. 208/14, depositata dalla sezione lavoro che Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti” evidenzia.
Il giudice boccia il ricorso di un operaio di una fabbrica che si opponeva alla sentenza del tribunale di Melfi che, in qualità di giudice del lavoro, dichiarava legittimo il licenziamento intimato dal datore per giusta causa. Il lavoratore era accusato di detenzione ai fini di spaccio di 275 grammi di hashish e per questo veniva arrestato dai carabinieri del posto. La sostanza stupefacente era destinata a essere ceduta ad alcuni colleghi. E infatti succedeva che uno dei lavoratori era fermato dopo l’ingresso in fabbrica, gli altri due, tra cui il ricorrente, cercavano invano di eludere il controllo dei militari. Dal controllo risultava che gli altri due dipendenti portavano con sé rispettivamente tre e due panetti di stupefacente, mentre il ricorrente, privo di hashish, ammetteva solo più tardi di aver cercato di sbarazzarsi dello stupefacente infilandolo nella tasca del giubbotto del collega. Scattava, così, l’arresto dei tre operai, colti in flagranza di reato di concorso nella detenzione ai fini di spaccio di hashish. L’azienda comunicava, successivamente all’accaduto, il licenziamento tramite raccomandata. Si rivela vano il tentativo di appellarsi al tribunale di Melfi da parte dell’operaio che sosteneva che sulla vicenda erano in corso le indagini preliminari.
Per i giudici la condotta incrina «irrimediabilmente» il vincolo fiduciario col datore. Questo perché, essendo un comportamento realizzato nell’ambiente di lavoro, mette a rischio la salute degli altri dipendenti, potenziali fruitori della sostanza stupefacente.
La Corte di Appello spiega che «ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare irrogato per un fatto che integri gli estremi di un reato non rileva la valutazione penalistica del fatto né la sua punibilità in sede penale, né la mancata attivazione del processo penale per il medesimo fatto addebitato, trattandosi esclusivamente di effettuare una valutazione autonoma in ordine all’idoneità del fatto a integrare gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo del recesso». Inoltre, continua la Corte potentina, «il giudice civile, ai fini della formazione del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un procedimento penale, comprese le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali».
 

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